Negli spazi di “H.UNICA”in mostra le opere di Luciana Dos Santos Pretta, Caterina Vitellozzi e Luca Theodoli

La materia conta. Nella storia dell’arte si è spesso trasformata da superficie, bozzolo e medium a vera ossessione. Basti pensare al rapporto di Michelangelo Buonarroti per il marmo, una battaglia titanica ed erotica insieme; oppure, cinque secoli più tardi, alla predilezione del land artist inglese Richard Long per il fango lasciato dalle maree del fiume Avon nel porto di Bristol, dove è nato, una sorta di fluido cordone ombelicale reimpiegato in una frenesia neo-espressionista astratta. Entrambi gli artisti hanno usato altre tecniche, l’affresco per Michelangelo, i cerchi di pietra per Long, solo per citare gli esempi più noti. Ma il sentimento, pur nei capolavori che sono venuti, si percepisce diverso.

Per alcuni artisti, la materia è prima. Gli oggetti raccolti da Robert Rauschenberg a New York hanno il sentore delle strade della metropoli. Il celotex alla fiamma di Alberto Burri ha un odore “concettuale” (e i sacchi, naturalmente, e i cretti). I fili tessuti di Maria Lai trascinano millenni di lavoro femminile. I sassi raccolti e tagliati come forme di pane dall’ucraina Zhanna Kadyrova durante la fuga da Kyiv nella prima fase dell’invasione russa passano da esperienza vissuta a messaggio universale (chiuso nella bottiglia dell’arte), così come i suoi vestiti di piastrelle mimetizzati su pareti di uguali piastrelle paiono evocare, dalla materia, ombre e orme umane. A volte, la materia è traslata in maniera quasi atroce, si può ricordare il quarto di bue scuoiato, sanguinante e marcescente, tenuto nel suo piccolo studio per giorni dall’artista Chaim Soutine. Ne dipinse quattro versioni. I vicini chiamarono la polizia per il cattivo odore, si racconta.

A volte però, l’ossessione è ludica, come succede alle materie plasmate in opere d’arte da Luciana Dos Santos Pretta, Caterina Vitellozzi e Luca Theodoli che espongono fianco a fianco, o meglio, stanza a stanza, negli spazi di Hunica, a Roma. Luciana Dos Santos è nata e ha passato l’infanzia in un Brasile lontano dal mare e vicino al deserto. Metafisico, come tutti i deserti. Che però, durante la stagione delle piogge si trasforma in una prateria. Così i suoi oggetti recuperati e intrisi di colori forti e cantanti paiono voler segnare e rigenerare il vuoto in ritmi di pigmenti e recuperare i giochi d’infanzia quando ogni oggetto si trasforma in un giocattolo: scatole di cartone, confezioni per uova o tele materiche come lenzuoli o mantelli cangianti che aprono lo sguardo a geografie dell’emozione. Le sue opere hanno un tocco teatrale – le grandi tele ruvide come sipari interiori – e intimo insieme – le scatole aperte e vibranti di colore come un ricordo svelato. Caterina Vitellozzi, romana con fughe a Londra e in Cina, è una rarità: una delle poche donne a lavorare il mosaico. E lo fa in maniera insolita. Rendendo visibile la materia, anziché nasconderla nel disegno (come accade nei micromosaici, per esempio). Di più: la rende organica, inserendo nelle grosse tessere sbozzate, canne di bambù e rami di alberi. Come a far respirare la pietra dei pannelli. I suoi vulcani sembrano voler eruttare colore. I suoi tasselli di mosaico fanno pensare a pelli di animali estinti e fantastici. La materia invece diventa un caleidoscopio minuzioso nei ritratti e nelle scritte composte con lattine di metallo dal romano Luca Thedoli. Il rifiuto urbano diventa il ritratto iconico della diva, la musa di Hitchcock e principessa di Monaco, Grace Kelly. Si fa linguaggio e pensiero nella scritta dove si rimescolano ironia e protesta come in uno dei migliori slogan delle prime proteste sessantottine. Diventa anche flusso e riflusso, dai cestini, dai sorsi distratti, dai vuoti buttati all’opera ritornata. Come l’eco di un mare. Non a caso, erano di fronte al mare nella caverna di Blombos, nell’attuale Sudafrica, i primi artisti di cui si ha traccia. Sulle sponde del mare hanno preso conchiglie per fare gioielli, con l’ocra rossa del terreno hanno tracciato linee (il segno del tris, l’hashtag, vecchio di centomila anni) sulle pareti delle caverne, sui loro corpi. Hanno trovato la materia, ne è uscita arte. Un linguaggio. Nella loro lingua defunta e irrintracciabile forse hanno esclamato come il greco Archimede ere più tardi: “Eureka!”. Ho trovato.
(Fabio Sindici)

Caterina Vitellozzi
Luca Theodoli
Luciana Dos Santos

HUNICA #5
a cura di Pamela Fiacconi

fino al 16 giugno 2023

H.UNICA – VIALE LIEGI, 54 – ROMA

Foto di Ottorino Giardino

La Principessa Irma Capace Minutolo

Grace di Monaco

Irma Capece Minutolo con la giornalista Federica Pansadoro, durante il vernissage

Al Museo del Saxofono, il FIUMICINO JAZZ FESTIVAL

2-11 settembre 2022

II edizione

Il duo formato dalla pianista Stefania Tallini e dal flicornista Franco Piana ha aperto la seconda edizione del Fiumicino Jazz Festival, in programma per due fine settimana e un ciclo di sei concerti tra il Museo del Saxofono e il Birrificio Agricolo Podere 676.

Il primo concerto, venerdì 2 settembre alle ore 21:00, ha visto incontrarsi due diverse personalità artistiche in un un repertorio che si muove da brani originali, composti dalla pianista e dal flicornista, a reinterpretazioni di standard jazz, canzoni italiane e  musica brasiliana. Un progetto molto originale con momenti di grande scambio anche tramite l’utilizzo di elementi inusuali, per musicisti come loro: Franco Piana che si esibisce anche in portentosi scat vocali, o utilizzando il flicorno come una percussione; Stefania Tallini che esplora particolari effetti timbrici sul pianoforte e usa la sua voce nell’esecuzione di un brano. Complicità, gioco, intesa, interplay continui, dalla prima all’ultima nota per questo interessantissimo progetto.

Sabato 3 settembre, sempre al Museo alle ore 21:00, si esibirà la formazione guidata da Giampaolo Ascolese nel progetto “My heart for Art”, omaggio ad Art Blakey, uno dei pilastri della storia del Jazz, grandissimo caposcuola e modernissimo interprete della batteria Jazz, negli anni ‘50 e ‘60, nonché fondatore del mitico gruppo dei Jazz Messengers. Oltre ad Ascolese, batterista e percussionista nell’ambito del Jazz da 50 anni, saranno sul palco Mauro Zazzarini al sax tenore (premio “Jazz Awards 2011” come miglior musicista di Jazz Nazionale), Mauro Verrone al sax alto (allievo di Massimo Urbani e trascrittore dei brani dei Jazz Messengers), Claudio Corvini alla tromba (figlio del grande Al Korvin, storica prima tromba dell’orchestra della Rai Radiotelevisione Italiana), Olivier Von Esse al pianoforte (diplomato alla School of Contemporary Music di Singapore, membro della Facoltà del Jazz and Contemporary della New School University di New York) ed Elio Tatti al contrabbasso. A causa della pioggia hanno preparato un allestimento interno per potersi godere il concerto.

Domenica 4 settembre il festival si sposta al Birrificio agricolo Podere 676 dove, ad ingresso libero, il gruppo SUPER DIXIE FIVE, una  All Stars Band  composta da Gianluca Galvani alla cornetta, Luca Velotti al clarinetto, Red Pellini al sax alto, Gino Cardamone al banjo e Giuseppe Talone al contrabbasso, darà vita ad una performance musicale con il migliore Dixieland degli anni ‘20. I cinque grandi e sapienti esponenti del Jazz tradizionale italiano, riconosciuti a livello internazionale, offriranno un concerto dedicato agli anni ruggenti americani condito di storie, aneddoti ed emozioni “soffiate“ all’aperto e incastonate nella campagna romana, unitamente alla degustazione di un eccellente menù agricolo e birra. 
Il programma della serata, a partire dalle ore 18:00, prevede una visita al luppolificio dell’Azienda con l’illustrazione delle fasi produttive della birra artigianale e a seguire, con prenotazione obbligatoria, un’apericena ed il concerto della Super Dixie Five.

I biglietti degli spettacoli del venerdì e sabato sera sono acquistabili al Museo o sul sito Liveticket mentre gli eventi al birrificio sono prenotabili direttamente al numero +39 348 6917050. Prima di ogni concerto (alle ore 20:00 per i primi due) è analogamente prevista un’apericena opzionale. Per tutti gli eventi è suggerita la prenotazione.

Dei Vizi e Delle Virtù, un viaggio

Di Laura Megna

Anni fa andai a visitare la Cappella degli Scrovegni a Padova, dove è presente tutto un ciclo di affreschi di Giotto Di Bondone. Rimasi colpita non tanto tanto dai meravigliosi affreschi delle scene di Gioacchino e Anna, genitori di Maria, o da quelle di Gesù, quanto delle piccole rappresentazioni dei vizi e virtù presenti nel quarto livello della cappella, quello più in basso.

Cerchiamo di capire il momento storico, primi del 1300; il papa Celestino V aveva abdicato e il suo successore fu Bonifacio VIII noto per lo schiaffo di Anagni e il famoso dissidio con Filippo V, detto il bello, Re di Francia, che portò il papato ad Avignone. Ricordiamo anche i Guelfi e i Ghibellini a Firenze, a seguito delle vicissitudini tra gli schieramenti, Dante fu costretto ad abbandonare Firenze.

Nella penisola italica vi erano correnti nuove da poco rinvigorite da Federico II di Svevia, che ha nella sua genia molti ed illustri saggi. Federico riportò il mecenatismo e la cultura come tramite per abbracciare tutti i popoli e le etnie che aveva sotto di lui. Con la sua opera riuscì a spingere al confronto facendo rinascere idee, anche sulla base della Chanson de Roland, poema carolingio XI secolo. 

In un contesto così mutevole sorgono le molte committenze e l’arte si rinnova. Ricordiamoci che nella penisola italica aveva una grande influenza il papato che stava cercando di espandere il potere temporale in tutta l’Europa.  

Padova anno 1303, città con Università, punto di riferimento culturale, finanziario e di mercanti e con questi anche di malfattori e di usurai, come lo era il padre del committente della cappella, Reginaldo, nominato anche da Dante nella prima cantica (inferno) nel girone degli usurai. Il committente Enrico degli Scrovegni intercedendo per il padre e per la famiglia cercò una redenzione nella costruzione della cappella, situata sui resti di un’arena romana. La cappella è intitolata a Santa Maria della Carità. Era la cappella privata attigua al palazzo familiare, ad oggi distrutto.

La cappella è orientata come da immagine acquisita da Google Earth

La fonte maggiore di illuminazione è data da 6 finestre posizionate sul lato sud est.

È da segnalare che sul lato opposto vi era il palazzo della famiglia degli Scrovegni, dal quale non poteva entrare luce, quindi tutta la parete interna alla cappella è completamente affrescata.  Ricordiamo che nel 1303, non esisteva luce elettrica, quindi la luce solare era necessaria per illuminare tutta la cappella. Le alternative erano candele a cera d’api, molto costose, oppure lumini ad olio, che a seconda della tipologia e della qualità creavano fuliggine annerendo gli affreschi e sprigionavano un odore non sempre gradevole.

All’interno della cappella ci sono 4 ordini di affreschi, che cronologicamente partono dall’angolo a destra in alto guardando l’abside (est), per poi scendere a spirale in senso orario. Prima si trovano le storie della famiglia di Maria Vergine partendo dai genitori Gioacchino e Anna, e poi le storie di suo figlio Gesù Cristo. Interessante l’uso delle figure, degli spazi e dei colori. Il tutto si conclude con l’affresco del Giudizio Universale posto sulla parete di sud ovest, l’uscita della cappella, la parete interna della facciata.

Il soffitto della cappella è un cielo stellato con dei tondi con le figure di Maria, di Cristo e dei Profeti. Il soffitto stellato era un’unione tra cielo e terra, come se Giotto volesse abbattere il soffitto e immergere la cappella elevandola in un punto sospeso tra terra e cielo, per unire l’uomo alla magnificenza della natura, al creato. Mi sono ricordata un altro viaggio, in Egitto, nei Templi vi era la dea Nut, che con il suo corpo ricoperto di stelle rappresentava la sfera celeste.

Ad oggi, per motivi di conservazione degli affreschi, non è possibile accedere dalla porta sulla facciata, quella al cui interno è possibile ammirare il giudizio universale. Il giudizio Universale rappresenta la fine di un percorso nato al sorgere della storia di Maria e che si conclude con la promessa di una fine dopo la morte, dopo il Giudizio Universale, dove Gesù con la croce divide e giudica le anime per segnarne la strada. Questa prosopopea in cui ci conduce Giotto è un viaggio che ognuno sceglie di fare per arrivare a quel giudizio. Giotto ci dà gli strumenti per arrivare alla salvezza posta a occidente. Tali strumenti sono sul modo di contrastare i vizi e sono raffigurati nel livello di affreschi più basso, ad altezza dei nostri occhi, in modo da poter vedere tutti i particolari degli affreschi, cogliendone le allegorie, rimanendo al centro della navata. Questo livello pittorico parla di vizi e virtù. Possiamo leggere le sette coppie partendo dall’abside per andare verso il giudizio universale, da oriente a occidente, verso l’uscita alla fine del percorso.  Posizionandosi in equilibrio nella coppia, tra esse troviamo

Giotto non inserisce i vizi capitali riconosciuti dalla Chiesa che sono: Superbia, Invidia, Ira, Accidia, Avarizia, Gola e Lussuria, ma ne dà una visione più attinente alla teologia Agostiniana del tempo. Ultimamente è stato identificato Alberto da Padova, il predicatore apostolico (così nominato da Bonifacio VIII) come ispiratore di Giotto nel complesso del ciclo pittorico della Cappella.

Vediamo nello specifico la coppia nella sua unità come viene rappresentata da Giotto.

StoltezzaePrudenza

Stoltezza raffigurato come uomo vestito in modo ridicolo, quasi in procinto di ballare, in cui non vi è possibilità di discernimento nel modo di vivere, poiché non riceve le cose dello Spirito[1], non riuscendone a capire il significato. Un uomo che non riesce ad andare oltre quello che vede e tocca, legato alla terra, e che si fa beffa degli altri volendo primeggiare e mostrandosi superiore e accaparrandosi tale superiorità anche con mezzi illeciti e con la forza, senza però avere cura del prossimo. Un uomo avaro di sentimenti e di emozioni, perché queste si possono provare solo attraverso lo spirito.

Prudenza, rappresentata da una figura femminile seduta, riflessiva, che tiene uno specchio in cui guarda sé stessa riuscendo a discernere il suo equilibrio interiore e del mondo che la circonda, poiché valuta le possibili azioni e conseguenze di quelle. Lo specchio rappresenta anche il voler guardare dietro le sue spalle, il suo passato, che rappresenta la sua esperienza e che la mette in grado di discernere il presente. Regge in mano un compasso simbolo di misura delle proprie azioni, nei pensieri e nei giudizi. Si vede una donna concreta e legata alla terra e al discernimento delle proprie azioni. Ha un libro sul quale può sia scrivere che leggere e dal quale può conoscere il mondo e lasciare al mondo la sua memoria.

Ricordiamo che nel 1300 non molti sapevano leggere o scrivere, i dipinti erano necessari per insegnare e dare anche a chi non sapeva leggere un’istruzione, ma proprio per questo il libro quando inserito nei dipinti ci dà indicazione dell’istruzione di chi lo tiene in mano ed è inoltre anche una metafora di conoscenza e istruzione per i posteri.

IncostanzaeFortezza

Incostanza donna in precario equilibrio, con la veste svolazzante su una ruota, che sembra quasi un monociclo come si usano nel circo. Non è appoggiata a terra, ma quasi su una roccia rossa di finto marmo scoscesa, che da il senso della poca stabilità, nel cullarsi giocando tra gli eventi che la Provvidenza gli pone. Credendo di saper volare, come sembra dalla postura, la donna, penserà di aver trovato la conoscenza, smettendo di cercare, cullandosi nel dolce far niente. L’uomo smette di cercare quando crede di aver trovato.

Fortezza, donna guerriero vigorosa e possente che tiene in mano uno scudo dove sono rappresentati una croce e un leone ed in mano una mazza di ferro, strumenti atti a combattere la cattiveria del mondo, ma soprattutto le proprie debolezze e le proprie mutevolezze, anche costruendo delle regole che possano creare una costanza nel proprio essere. Lo scudo sembra quasi una colonna, anche essa simbolo di forza e disciplina. È adornata dalla pelle del leone nemeo, come Ercole (Eracle) con la sua prima fatica, in cui utilizza la forza delle sue mani per sconfiggere la bestia feroce e dal suo manto impenetrabile, così la donna guerriero è pronta a utilizzare la sua forza contro l’incostanza e la pigrizia, come un fuoco che brucia costante e duraturo, poiché non è una forza che attacca ma è la forza che resiste.

IraeTemperanza

Ira rappresentato nell’atto di strapparsi le vesti, come già rappresentato da Giotto nella Cappella, nell’affresco in cui Gesù viene portato davanti ad Anna e a Caifa. Caifa nell’affresco si strappa le vesti mostrando, l’ira, la mancanza di controllo sulle proprie azioni e emozioni. Qui nella nostra allegoria vediamo una figura con atteggiamento lascivo prodigata in comportamenti sempre più voluttuosi. Ira quale desiderio di avere emozioni, senza però capirne l’essenza, bramandone sempre di più fino all’esternazione in comportamenti e offese verbali, generando aggressività. Ricordiamo il proemio dell’Iliade in cui Omero già nelle prime righe preannuncia le emozioni e le aggressività che porteranno allo svolgersi del poema[2]. Una passione primitiva, come sentimento improvviso e eccessivo, incontrollabile, come in Achille e come nella nostra raffigurazione. Sono un’incontrollabile reazione alle emozioni[3].

Temperanza, donna raffigurata con una spada chiusa da molti lacci e con un morso in bocca, simboli che rappresentano un freno, la volontà che è necessaria a frenare i propri istinti, conoscendoli, e per questo fermandoli. La spada strumento atto a uccidere, conosciuto da lei nel suo potenziale, ma fermo e attenuato nella sua estrema volontà, bloccata nella sua foga. Per quanto riguarda il morso, sembra quello dei cavalli, ma non è per bloccare la parola, ma per non eccedere, sia per contrastare l’ira, sia per contrastare la golosità nell’eccesso di cibo e di bevande. Vi è una eleganza data dalla pacatezza di quest’equilibrio, con il capo coperto per non ostentare la sua presenza, umilmente ed efficacemente.

IngiustiziaeGiustizia

Ingiustizia questa figura sembra seduta, ma non su un trono come vedremo con la giustizia, ma su un giaciglio di un palazzo composto da alte mura in rovina. Ai suoi piedi vi sono scene cruente di comportamenti, quali uccisioni, torture, atti di ruberie, simbolicamente tutti gli atti che l’ingiustizia, come un giudice corrotto lascia che si compiano. Il suo giaciglio è bloccato da alberi e arbusti che non gli consentono di potersi muovere poiché fermato dai suoi stessi soprusi. In mano ha un arpione con il quale prende quello che desidera e tiene una spada al suo fianco che non sa e non può usare perché ancorata anch’essa dagli arbusti. L’arpione e la spada simbolicamente strumenti dei suoi soprusi che esercita usurpando e desiderando tutto per sé stesso.

Giustizia seduta su un trono in stile gotico, metafora della sua maestà e signoria nei rapporti tra gli esseri umani, rappresentati in scene di vita quotidiana alla base del trono. La prospettiva, agli albori dei suoi studi, viene rappresentata perfettamente da Giotto posizionando la giustizia al centro di quello sfondo prospettico che tiene gli occhi di chi guarda proiettati in quell’attimo di equilibrio di tutta la parete e abbagliati dalla luce delle finestre. La Giustizia sospesa nell’aria al di sopra del mondo terreno, in mano tiene due piatti di una bilancia nei quali sono rappresentati angeli, come attori, a coronare di alloro le teste dei giusti oppure a tagliare la testa di coloro che si adoperano ingiustamente nei confronti degli altri uomini. La giustizia presenta la corona simbolo di maestà ma anche di responsabilità nelle scelte e nelle azioni che discendono per premiare i meriti o colpire i demeriti.

Idolatria o InfedeltàeFede

Idolatria o Infedeltà identificato con una figura maschile che tiene in mano una statua di un falso Dio, la quale a sua volta tiene una corda che gli cinge il collo della nostra figura. In un certo qual modo possiamo dire che l’orgoglio in questa allegoria non porterà alla vera parola rivelata e proposta da un profeta alle spalle poiché non gli è possibile voltarsi[4], quindi non potersi confrontare e conoscere la parola rivelata e la fede. Davanti a se ha il fuoco, rosso come le fiamme alle quali sta andando incontro.

Fede viene rappresentata da una donna con una lunga tonaca bucata, logora. Le vesti logore rappresentano il rifiuto delle cose materiali e la noncuranza di queste, poiché non vi è importanza delle materie ma solo attraverso la fede si arriva alla verità svelata dalla croce posta sul bastone simbolo della fede cristiana, che tiene in mano. Nell’altra mano tiene una pergamena con la preghiera del credo[5] scritta in latino. Ai suoi piedi calpesta tutto quello che sono i falsi profeti, falsi miti, i finti idoli, per romperli e far capire che le verità rivelate sono al di sopra e si possono rompere proprio perché falsi. Porta un cappello simile alla mitra[6] vescovile, simbolo di autorità e dignità, nella vita devota alla fede. Alla cintura, simbolo di castità, porta una chiave, la stessa chiave che apre il regno dei cieli. La fede è anche la fiducia che ci permette di andare oltre l’orgoglio dell’avere, per poter tornare a essere, quindi un passaggio dello spirito e nello spirito, andando incontro alla promessa di salvezza. Al di sopra della donna vi sono due angeli che osservano il suo operato.

InvidiaeCarità

Invidia rappresentata da una donna anziana con lingua di serpente che guarda sé stessa, come ad indicare che le male lingue dette, le ritornano indietro, o che quelle lingue sono la rappresentazione di se stessa che non vuol vedere, invidiosa degli altri poiché non vede oltre gli occhi del serpente, se stessa. Le orecchie enormi per ascoltare pettegolezzi e le corna che escono dalla cuffia, come un essere demoniaco, che non può che bruciare tra le alte fiamme del fuoco dell’inferno, rosse vive e accese. Pur patendo, senza accorgersene a tale vizio, brama, con la mano ad artiglio, di andare avanti, verso il giudizio universale, di cui davanti ha se è dipinto l’inferno, non potendo provare altro che invidia verso gli altri uomini.

Carità una giovane adornata di fiori e con in mano una cesta di frutti come melograni, spighe di grano, carciofi, noci e castagne, tipici frutti prodotti dal caldo sole estivo/autunnale e che la natura regala agli uomini per l’inverno. La testa della donna è circondata da un’aureola nella quale è possibile vedere del colore rosso in tre punti quasi posti a triangolo all’interno dell’aureola stessa. La sua mano è unita a una figura di Cristo, il quale allunga alla carità i suoi doni, come uno scambio tra il divino e il materiale, quel materiale calpestato, posto sotto i suoi piedi, necessario solo per aiutare i bisognosi.

La carità assoluta sgorga da un atto di amore totale, con il quale l’Uomo vuole a Dio l’infinito bene che la Fede gli ha rivelato e che egli vuole, per sé e per gli altri Uomini, questo bene indissolubile di Dio.

DisperazioneeSperanza

Disperazione raffigurata da una donna, appesa ad un cappio, nell’atto estremo di togliersi la vita, guidata in un atto così cruente da un demone, che risucchia i pensieri della donna e quasi protratto a strappargli i capelli dalla testa, già spezzata dal corpo, per mostrare ciò che sarà nel Giudizio Universale. Le mani della donna sono contratte come se ci fosse stata la collera che ha portato a tale gesto di disperazione, poiché vi è una perdita di controllo di sé stessi.

Speranza raffigurata come una donna, un angelo con le ali, che si ritrova al di sopra della terra con la braccia protese verso una figura che spunta in alto a destra porgendogli una corona, simbolo di una vita oltre la morte per coloro che non si abbattono. Non toccare terra, parla dell’anima e dello spirito che purificato, poiché riesce a vedere oltre ed essendo passata attraverso i vizi, grazie alle virtù sale verso la promessa.
Interessante la rappresentazione di profilo poiché ci porta lo sguardo ad andare oltre, come un movimento alato, verso il giudizio universale.

Lo sguardo prospettico nelle nostre figure allegoriche è proiettato verso il Giudizio Universale, con il quale si conclude il percorso iniziato nella Cappella.

Da notare l’uso dei colori, il Maestro utilizza solo tonalità ocra, beige, marroni, azzurro/blu e rosso. Un attento utilizzo del rosso e dell’azzurro, in particolare il rosso, viene utilizzato per l’incostanza, infedeltà, la carità e l’invidia. L’azzurro viene utilizzato come sfondo soprattutto nelle allegorie delle virtù.

Giotto con le sette virtù ci dà gli strumenti per contrastare i vizi, ma al contempo ci pone in equilibrio tra essi, poiché la conoscenza delle cose ci permette di sceglierne il percorso.

Credo che tutta quest’opera sia l’aretè di Giotto e del suo pensiero, arrivato fino a noi, potendo vedere uno spaccato del suo tempo e delle sue luci e colori.

La cappella è possibile visitarla virtualmente al seguente link

https://www.haltadefinizione.com/visualizzatore/opera/cappella-degli-scrovegni-giotto-di-bondone

E’ possibile ingrandire tutti gli affreschi.


[1] Riferimento all’uomo naturale di cui parla San Paolo

[2] Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide, rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei, gettò in preda all’Ade molte vite gagliarde d’eroi, ne fece il bottino dei cani, di tutti gli uccelli – consiglio di Zeus si compiva – da quando prima si divisero contendendo l’Atride signore d’eroi e Achille glorioso. (traduzione italiana di Rosa Calzecchi Onesti).

Parafrasi: O musa, canta l’ira rovinosa di Achille, figlio di Peleo, che diede molti dolori agli Achei, gettò nell’Ade molte vite valorose di eroi, li rese preda di cani e di tutti gli uccelli – così si compiva il volere di Zeus -, da quando si divisero litigando l’Atride signore di eroi (Agamennone) e il divino Achille.

[3] La parola emozione deriva dal verbo latino “emovere”, che significa rimuovere, trasportare fuori, scuotere. L’emozione è dunque qualcosa che ci fa scuotere dal nostro stato abituale, che ci fa muovere.

[4] Mi viene in mente il mito della caverna di Platone, in cui i malcapitati bloccati, potevano osservare e conoscere solo una visione della realtà, potendosi muovere hanno conosciuto altre sfaccettature di essa, ma fondamentalmente è un provare a rimette in gioco le proprie idee e convinzioni.

[5] Credo in unum Deum, Patrem omnipoténtem, Factorem cæli et terræ, visibílium ómnium et invisibilium.

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.

Testo quasi leggibile sulla pergamena. Ho inserito sia la versione latina che la traduzione italiana.

[6] Approfondendo la parola mitra, abbiamo diversi suggerimenti, soprattutto provenienti dal greco antico, in cui la mitra era una fascia o un indumento atto a proteggere, poi anche nastro di stoffa o lana utilizzato soprattutto nel mondo muliebre greco. Successivamente viene ornato e utilizzato come copricapo femminile anche nel mondo romano.
Altra indicazione è data dal mito di MITRA e dai mitrei presenti in tutto il mondo romano antico.
Successivamente la parola è stata utilizzata per indicare la copertura del capo di dignitari ecclesiastici che veniva utilizzata durante alcune funzioni sacerdotali.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla pagina:
https://www.treccani.it/enciclopedia/mitra_%28Enciclopedia-Italiana%29/